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Le Mura

Mura, sostantivo femminile plurale
Massimo Maiorino

 
«Ma le mura a cui mi appoggio partecipano del segreto dell’ulivo,
  la cui chioma, come un serto tenace e poroso, lascia filtrare da
  mille varchi il cielo».
W. Benjamin, Immagini di città, 1955
 
 
1. È seguendo la riflessione di Filiberto Menna - muovendo da alcuni dei motivi di fondo che punteggiano La linea analitica dell’arte moderna (1973) -, che si ritrovano alcuni strumenti utili ad interpretare tracce e traiettorie dell’itinerario seguito da Michela Liberti. Ed è dal luminoso introibo di Menna nel segno baudelairiano «della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io»[1] che si incrociano le coordinate di una prassi, vissuta sotto il segno di due costanti: «da un lato, l’artista si concentra in se stesso, riflettendo sui propri procedimenti e sulle funzioni mentali che stanno a monte di essi; dall’altro, si sporge sul mondo, penetra nello spazio ed in qualche modo lo modifica»[2]. Dunque una postura che appare contraddistinta da un rischioso equilibrio, da una doppia polarità che l’artista sperimenta nel fare arte e nel fare un discorso sull’arte. Ad accertare il funzionamento di questa dialettica ritroviamo l’esercizio pittorico di Liberti che oscilla con luminosa intelligenza tra icone e figure, che passa dall’introversione dello spazio mentale - dalla circoscritta architettura mobile delle mura che perimetrano il proprio io - e si completa nella sua estroflessione verso l’esterno, nella sua dematerializzazione, nella sua vaporizzazione che trova forma in apriche walls of light. E sono proprio le mura - la cui declinazione al plurale femminile è già il prezioso indice di un’eterodossia che forza ed indebolisce la rigida ortodossia sancita dal muro - l’emblema individuato dall’artista per riflettere questa condizione; mura che assurgono a palinsesti di uno sguardo doppio, indice di un’apertura e di una chiusura dell’essere, come per tempo ha appuntato Bataille: «Essere isolato e comunicazione hanno un’unica realtà. Non esistono da nessuna parte ‘esseri isolati’ che non comunichino, né esiste una ‘comunicazione’ indipendente dai punti di isolamento»[3].
Allora le mura, come la città che nelle intersezioni e stratificazioni si fa comunità, sono porose, com’è poroso l’uomo oscillante tra l’interno e l’esterno, tra il privato e il pubblico. Una porosità che è «compenetrazione di giorno e notte, rumore e silenzio, luce esterna e buio interno, strada e domicilio»[4], ha osservato Benjamin disegnando con Asja Lacis la sua idea di Napoli, città che non a caso ha avuto per Liberti una funzione pedagogica e creativa nella costruzione del suo immaginario artistico, segnato dall’incontro decisivo con Gianni Pisani e Ninì Sgambati, Renato Barisani e Augusto Perez.
 
2. Dunque mura che separano ed uniscono, accolgono e raccontano le langage du mur - quello trascritto in luce dall’occhio di Brassaï -, di cui La sala delle agitate, un corpus di piccoli disegni datati 1995 che segnano la soglia al percorso espositivo della Casina dei Mosaici di Villa Favorita, sono prima e preziosa manifestazione. Una costellazione di figurazioni posta sotto il segno della concentrazione, dello sprofondamento e del sisma interiore, che riflette una galleria formata da architetture fluide e da mura morbide. Stanze proiettive abitate da una tensione aurorale alimentata da un esercizio di autoriflessione, che vedono agire/agitarsi presenze figurali determinate dalla presenza di pochi formanti figurativi, che non assumono mai una configurazione ben riconoscibile. Eppure questo momento, nutrito da una tensione tra superficie e rappresentazione, è determinante nella costruzione di una macchina spaziale e architettonica che conosce un’estroflessione negli anni successivi di cui è prova flagrante il ciclo Le Mura (2024). Le composizioni riflettono un momento di espansione e trasformazione in azione estetica e in evento vitale, uno sconfinamento di cui sono veicoli privilegiati il gesto e il corpo nella sua totalità, così la sparizione del figurale dal campo della rappresentazione s’accompagna all’affiorare nello spazio della tela di grandi campiture cromatiche aniconiche che ne assorbono e riflettono le proprietà. Da un sentire concavo ancorato alle mura come limite e perimetro, hortus conclusus di un discorso meditativo ed intransitivo affidato a pochi segni asciutti, si perviene ad una pienezza convessa, affidata ad un colore seducente e arioso. Una galleria di opere percettivamente cariche di valenze simboliche e alchemiche prodotte dal sapiente dosaggio di pigmenti e materiali naturali come la cenere e la cera d’api, superfici pittoriche che assurgono a mura incorporee che non «delimitano lo spazio, semmai lo aprono, lo articolano, lo figurano: e in tal modo figurano il nostro presente, la nostra vita, intessuta di spazio e tempo»[5].
 
3. Materia e colore, questa la natura irriducibile delle mura di Liberti che assumono una dimensione ambientale invadendo gli spazi senza circoscrivere, ma disegnando zone di contatto, indicando percorsi di scoperta e di trasformazione. In questa ulteriore curvatura il discorso pittorico si apre ad elementi naturali, la tela si lega alla cenere ed alla lava condensate in grandi pietre poggiate al pavimento che ribaltano e decostruiscono la verticalità delle opere creando delle architetture effimere. Una raffinata metonimia che mette in relazione l’opera dell’artista all’azione del vulcano, emblema di libertà e di energia inesauribile, e sancisce un ineludibile genius loci che ricorda le affinità tra questo ciclo di opere monocromatiche in giallo, in rosso, in verde e in blu ed i grandi affreschi paesaggistici che bucano le pareti delle domus pompeiane. In questo tramando tra il passato ed il presente, tra archeologia e contemporaneo, il peso delle mura si dematerializza nelle vibrazioni del paesaggio, il vicino ed il lontano si confondono producendo un anacronismo che è insieme spaziale e temporale. Avviene così che le mura diventino leggere come bandiere ed ampie come finestre; fissandone una, non solo è come se si fosse davanti una finestra, «ma come se da quella finestra-quadro si vedesse il paesaggio, come se da quello spazio per lampi e pazienza, per contemplazione e disperazione fosse possibile sporgersi su un altro spazio»[6].
 
 

 

[1] C. Baudelaire, Diari intimi, trad. it. di C. Decio, Dall’Oglio, Milano 1952, p. 49.
[2] F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 2001, p. 3.
[3] G. Bataille, L’amicizia, trad. it. di A. Zanzotto, SE, Milano 1999, p. 36.
[4] W. Benjamin, A. Lacis, Napoli porosa, trad. it. di E. Cicchini, Dante&Descartes, Napoli 2020, p. 36.
 
[5] R. Messori, La porosità dei muri. Su alcune analogie tra Walter Benjamin e Maurice Merleau-Ponty, in «Ricerche di S/Confine», 1, 2011, p. 274.
[6] A. Anedda, Mark Rothko, in «Antinomie. Scritture e immagini», 24 novembre 2023. Disponibile online all’indirizzo https://antinomie.it/index.php/2023/11/24/mark-rothko/, consultato il 30 maggio 2024.



 

Dalla polis alla cosmopolis, mura e limes: posizione antitetiche tra la comunità e l’io.

 

Michele Scafuro

 

 

Nel mondo antico, le mura rappresentavano il confine fisico di una polis/città. Queste strutture architettoniche segnavano la linea di demarcazione tra l'interno e l'esterno, tra lo spazio civilizzato e conosciuto e le distese ignote e spesso ostili che si estendevano oltre. Nella cosmopolis/città globale acquisiscono un significato simbolico incarnando l'immagine del confine, fungendo da limes da attraversare, un sottile bordo che separa e al contempo unisce due dimensioni opposte e complementari: il dentro e il fuori, l'alto e il basso, l'appartenenza e l'estraneità.

In questa prospettiva, le mura non sono soltanto un elemento divisivo, ma anche un simbolo di transizione. Esse rappresentano la linea di passaggio tra una condizione e un'altra, e simbolicamente, tra uno stato dell'anima e il suo opposto.

Le mura racchiudono e proteggono, ma allo stesso tempo invitano al superamento, alla scoperta di ciò che si trova al di là.

 

Nella deduzione politologica contemporanea, sta emergendo il concetto di teicopolitica, coniato dagli studiosi francesi Florine Ballif e Stéphane Rosière. Questo termine, derivato dal greco τείχος/teichos/muro di cinta della città, si riferisce a qualsiasi politica di recinzione dello spazio, generalmente connessa a una preoccupazione di protezione del territorio, mirata a rafforzarne il controllo (Ballif e Rosière, 2009, 194). I muri non sembrano mai scomparsi, essi rappresentano ancora il potere esercitato sullo spazio. Questi muri contemporanei, strumenti di differenziazione spaziale, rievocano il dibattito filosofico-politico greco, a cominciare da Platone che sosteneva che la protezione della comunità dipendeva troppo dalla fortificazione dei confini, considerando le mura un segno di debolezza.  (Leggi, VI, 778d-779a). Per Platone, una comunità murata è il sintomo di una comunità decadente, debole; il modello ideale di città era Sparta: non circondata da mura, ma vigorosa e in salute come i suoi abitanti. Vale in Platone un principio analogico, che rimanda dall’individuo al collettivo: il corpo del singolo è lo specchio del corpo sociale. La filosofia politica di Aristotele rispondeva a Platone, criticando che le città possano fare a meno di mura ed evidenziando che le città che si vantavano di tale bravura sono state confutate dai fatti (Politica, 1330b30). Secondo Aristotele, il fine della polis è garantire la felicità dei suoi abitanti, che dipende da condizioni favorevoli come clima, salubrità dell’aria e assenza di acque stagnanti, nonché dalla libertà e dalla pace stabile. Per raggiungere questi obiettivi, la città deve essere costruita in modo da scoraggiare attacchi nemici, rendendo gli attacchi difficili e dissuasivi (Cambiano 2016).

 

Nell'epoca contemporanea, si sta riattivando questo paradigma aristotelico in un contesto diverso da quello originale, supportato dalla retorica demagogica dell’invasione e dell’assedio. Esiste come è evidente una chiara contraddizione tra la visione postmoderna dominante del mondo come uno spazio fluido, virtuale e privo di confini (Virilio, 1981; Ohmae, 1990; Bauman, 2008), e la crescente e ossessiva moltiplicazione dei confini politici interstatali, facendo emergere una complessa dialettica tra la liquidità postmoderna e la solidità contemporanea. Questo ha portato Wendy Brown a sostenere che la nostra epoca è caratterizzata non solo ancora dalla presenza dei muri, ma anche dal desiderio inconscio di questi. Brown propone un'interpretazione psicoanalitica di questo desiderio, secondo cui il processo di creazione di difese psichiche alimenta la costruzione di difese materiali (Brown, 2013, p. 133). Ma quanto queste difese materiali contribuiscono a placare l’inconscio desiderio di sicurezza e qual è il prezzo da pagare sul ridimensionamento della dimensione psichica dell’individuo?

 

In molte opere della letteratura antica, il tema del superamento delle mura è metafora di crescita personale, di viaggio interiore e di trasformazione. Attraversare le mura significa oltrepassare i limiti del conosciuto, affrontare l'ignoto e, in ultima analisi, confrontarsi con sé stessi.

Le mura, dunque, con la loro duplice natura di barriera e passaggio, rappresentano un punto di incontro tra la stasi e l'evento, tra la protezione e la libertà. Esse ci ricordano che ogni confine è anche un'opportunità di cambiamento, un invito a esplorare nuove dimensioni della realtà e della propria interiorità. In questo senso, le mura sono molto più di semplici strutture fisiche: esse diventano simboli potenti e poliedrici, capaci di evocare una vasta gamma di significati e riflessioni.

Con le loro torri e porte, le mura sono lo spazio vitale in cui si svolge la tragedia di Eschilo, I sette contro Tebe. Il modello di riferimento è certamente quello del terzo libro dell'Iliade di Omero, e le mura rappresentano non solo un luogo di guerra e morte, ma anche il confine crudele tra sepolture degne e indegne, ovvero di quella drammatica diversificazione di dignità tra simili. Dalle mura, Eteocle chiama i guerrieri cadmei a combattere: le sette porte turrite saranno assediate da sette valorosi guerrieri argivi, uno dei quali è suo fratello Polinice. Ai giganti della guerra, schierati fuori dalle mura, risponderanno altrettanti poderosi combattenti all'interno. Il confine fortificato non è solo la fragile protezione che tiene lontani i nemici, ma anche la soglia dolorosamente imposta dalla politica sugli affetti familiari: come Eteocle, Polinice è fratello di Antigone, ma per i Tebani è un nemico della città, e quindi il suo corpo è destinato a essere abbandonato fuori dalle mura, senza una sepoltura dignitosa. Lo spazio che si apre attorno ai guerrieri non è un testimone muto o indifferente, ma una presenza umanizzata, tutt'altro che neutrale nella sua consonanza con il dolore del coro: piangono le torri, piangono le mura; questa umanizzazione altro non è che l’esorcizzazione del dramma della separazione e della morte. La neutralizzazione di un limite austero, rigido che può e che dovrebbe essere superato.

 

Le mura sono il paradigma dello spazio divisivo da valicare e il punto metaforico oltre il quale finanche emanciparsi.  Così è per Elena che, nel terzo libro dell'Iliade, avanzando nello spazio aperto delle mura di Troia, conquista il suo ruolo pubblico, la possibilità di parlare e di fornire informazioni preziose al suo re. Elena, oltrepassando quel limite non solo conquista il passaggio dalla solitudine silenziosa della tessitura, cui era intenta nel palazzo di Paride, allo spazio “politico” che le permette uno sguardo privilegiato sulla battaglia, ma scopre anche la pienezza della propria voce. Prima imbrigliata nella pittura muta del ricamo, ora libera di esprimersi anche al cospetto del vecchio Priamo, che la ascolta con attenzione e affetto. In questo nuovo ruolo, Elena emerge come una figura capace di influenzare la narrazione della guerra, offrendo descrizioni dettagliate e profonde dei guerrieri achei, dimostrando una conoscenza e una saggezza che trascendono il suo ruolo di donna relegata ai lavori domestici. La scena sulle mura di Troia rappresenta un momento di forte simbolismo: Elena, che inizialmente era vista come la causa del conflitto, ora diventa una guida, una voce autorevole che descrive e interpreta la realtà bellica per il re. Questa transizione segna un cambio di prospettiva, dove la figura femminile, spesso relegata a ruoli marginali, assume un'importanza centrale nello scenario politico e militare. Le mura, simbolo di divisione e protezione, diventano il palcoscenico su cui Elena esercita il suo nuovo potere comunicativo e narrativo. L'evoluzione non è solo personale, ma riflette anche un cambiamento nella percezione del ruolo della donna nella società troiana. Le mura che la circondano non sono più solo barriere fisiche, ma diventano confini simbolici che segnano la sua trasformazione da semplice spettatrice a protagonista attiva del dramma troiano. Il vecchio Priamo, nel rivolgersi a lei per ottenere informazioni, riconosce implicitamente la sua autorità e il suo valore, offrendole un rispetto che va oltre il semplice interesse.

Questo episodio illumina Elena, la narrazione epica è arricchita da una prospettiva umana e sociale, mostrando come anche in un contesto dominato dalla guerra e dagli uomini, una donna può trovare e affermare la propria voce.

 

La scena struggente del sesto libro dell’Iliade, in cui Ettore si precipita a cercare per l’ultima volta Andromaca, salita con il figlio sulle porte Scee per seguire le sorti della guerra, è un momento che affonda le radici nella profondità dell'umana esperienza. La loro ricerca reciproca li porta a incontrarsi sulle mura, un luogo intermedio che li vede disadatti al proprio ruolo abituale, sorpresi da un’emozione che solo lì, nello spazio estraneo sia alla frenesia della guerra sia al ritmo placido del quotidiano, può trovare la sua piena espressione.

Le mura, oltre a essere il teatro dell’incontro tra Ettore e Andromaca, rappresentano anche il cuore pulsante dell'attesa. Non più solo per la tensione dell’avvistamento del nemico, ma anche per la speranza nel ritorno di chi è partito. L’Agamennone di Eschilo si apre con l’umile voce di chi ha trascorso dieci lunghi anni in un giaciglio improvvisato sulle mura del palazzo regale di Argo, in attesa del ritorno del re. Questo messaggero della notte, che per anni ha cantato nella solitudine per impedirsi il sonno, ormai conosce a memoria la geografia degli astri e piange le sventure della sua città. La poesia di Eschilo ci trasporta, insieme a questa fedele sentinella, alla visione dei fuochi che in lontananza annunciano la vittoria nella guerra di Troia e il ritorno di Agamennone, pur accompagnato da infausti presagi. Figura tenace e devota, legge i segni, il fiammeggiare delle fiaccole lontane, il silenzio della notte. Le mura sono qui il simbolo dell’attesa e del suo compimento, lo spazio della sospensione che cede la scena all’avvento della realtà. Il guardiano accoglie i fuochi e poi scompare, la sua voce è inghiottita per sempre dal silenzio e dal buio che l’avevano generata. Noi restiamo li, toccati dalla storia che si compie come un destino, con la promessa fugace di quei fuochi visibili solo dall’alto delle mura. Questi momenti intensi ci ricordano la complessità e la ricchezza delle emozioni umane, intrecciando la nostra esistenza ultracontemporanea quali cittadini della cosmpolis con la trama eterna della storia.

 

Ma oggi quel limes assume una dimensione nuovamente critica, non solo fisicamente con mura materiali, ma anche in un senso metaforico, fatto di barriere invisibili, paure e chiusure psicologiche.

Il dramma della pandemia da Covid ha amplificato ulteriormente questo senso di isolamento e chiusura. Tutti abbiamo sperimentato, a livello globale, un allontanamento forzato dal mondo esterno. Il silenzioso spettro della morte si è manifestato attraverso un virus invisibile, la scienza indicava la chiusura come difesa della vita, il distanziamento sociale come garanzia di salute e indicava nella separazione degli individui l’unica prospettiva della salvezza.

Tuttavia, mentre nei primi anni del Duemila si poteva osservare una tendenza all’isolamento di individui particolarmente sensibili, oggi assistiamo a un fenomeno diffuso di costruzione di mura ancora più inquietanti: dalla violenza del bullismo e di genere, alla ritirata dietro lo schermo di uno smartphone o di un pc, fino alle dipendenze tecnologiche vere e proprie, ai disturbi d'ansia e all'incapacità narcisistica di misurarsi con l’altro. Il parallelismo con il mito di Edipo e la peste che colpisce Tebe è evidente: l'uomo cerca disperatamente un colpevole nell'altro, senza rendersi conto che spesso le radici dei nostri problemi risiedono dentro noi stessi.  Come recita un detto africano, quando puntiamo il dito per accusare qualcun altro, dobbiamo ricordarci che tre dita indicano verso di noi.

 

Queste opere sono una sorta di esorcismo contro le mura invisibili che costruiamo intorno a noi. Esse fungono da specchio in cui ognuno può vedere riflessa l'immagine del proprio io più autentico e profondo. Le pietre laviche, figlie del fuoco, che stabilizzano queste mura assumono i lineamenti delle speranze, delle visioni e delle tensioni che ci schiacciano, ma anche delle nostre aspirazioni più autentiche. In un'epoca in cui il mondo sembra inclinare verso il protezionismo, il nazionalismo e la chiusura dei confini, la scomposizione del filo spinato in cenere e colori diviene per me un segno di umana speranza.

 

 

Riferimenti Bibliografici

 

Ballif F., Rosière S. 2009, Le défides «teichopolitiques». Analyser la fermeture contemporaine des territoires. Espace géographique, 3 (38), 193-206

 

Bauman Z. 2008, Modernità liquida. S. Minucci (trad.)

 

Brown W. 2013, Stati murati, sovranità in declinoS. Liberatore (trad.)

 

Cambiano G. 2016, Come mare in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele

 

Ohmae K. 1990, The Borderless World. Power and Strategy in the Interlinked Economy

 

Virilio P. 1981, Velocità e politica. Saggio di dromologia. L. Sardi-Luisi (trad.)

ORIZZONTI DI ATTESA

In anni di sempre più rutilante trasformazione, sotto tutti i profili, l’arte più che mai dovrebbe
interrogarsi su se stessa: sul proprio ruolo, sulla propria funzione, ma anche e soprattutto sul proprio
linguaggio. Poiché è proprio attraverso le sue forme, la sua estetica, la sua sintassi, i suoi stili e
stilemi, che l’arte può entrare, più o meno, in rapporto con la realtà circostante, con la storia, con la
vita degli uomini che la fanno e che ne fruiscono. Un rapporto che può essere ambivalente: un
viaggio di andata e ritorno. L’arte deve subire l’influenza della realtà e del suo divenire, ma deve
anche, al tempo stesso, influenzarla e influenzarne, in qualche modo, le trasformazioni. O almeno
dovrebbe provarci. Non solo lavorando sulle idee, e dunque sulla percezione, sull’interpretazione
della realtà, ma anche sulla sua progettazione. Ma perché questo possa accadere occorre che l’arte
contemporanea diventi strumento più forte e più duttile al tempo stesso, da una parte recuperando e
rinsaldando le proprie radici e dall’altra aprendosi alla molteplicità delle sue infinite possibilità
espressive ed altrettanto, infinite concezioni estetiche attuali. Solo così l’arte può entrare
efficacemente in rapporto dialettico con una realtà così articolata, stratificata, sfaccettata e
complessa come quella contemporanea. Nel corso degli ultimi 150 anni il succedersi delle scoperte
scientifiche e tecnologiche ha impresso alla storia dei mutamenti vertiginosamente rapidi e radicali.
Allo stesso modo negli ultimi 150 anni il succedersi delle invenzioni e delle trasformazioni sul
versante artistico, col succedersi inesorabile e travolgente delle Avanguardie, è stato altrettanto
vertiginoso. Ed è ovvio che tra le due cose ci sia un rapporto più o meno diretto di causa-effetto, o
per lo meno di osmosi o di contagio. Ora, il mondo in cui oggi viviamo, risultato di tali
trasformazioni, è inquieto, stratificato, caotico e contraddittorio. E l’arte che può entrare in rapporto
con questo mondo non può che essere un’arte capace di raccogliere e sintetizzare l’inquieta,
stratificata, caotica e contraddittoria eredità delle Avanguardie e degli ultimi 150 anni di arte
contemporanea. E forse anche oltre, poiché in effetti negli ultimi 150 anni, tra un’Avanguardia e
l’altra non sono mancati momenti di “Ritorno all’ordine” in cui si è voltato un rinnovato sguardo
alla tradizione pittorica più antica. E anche questi momenti fanno parte del retaggio della
Contemporaneità e hanno contribuito a forgiarne le forme.
E questa è la linea che si è seguita in questi ultimi anni dove gli artisti devono essere in grado di
recuperare e reinventare il retaggio delle grandi Avanguardie storiche, ma anche e soprattutto di
sintetizzare e contaminare stili e linguaggi, trovando punti di contatto inediti e suggestivi. Il tempo
delle Avanguardie è finito. Si è aperto con l’Impressionismo e si è chiuso con la Transavanguardia.
Per oltre un secolo ogni nuova generazione di artisti ha cercato di smarcarsi dalla generazione
precedente proponendo una nuova, differente idea di arte contemporanea. Ora tutto questo sembra
non funzionare più. Il meccanismo pare inceppato. A partire dal discorso generazionale. La prova
lampante che un certo ‘meccanismo’ sia saltato balena agli occhi di tutti se si sofferma l’attenzione,
senza pregiudizi, su di un fatto concreto, tangibile, facilmente riscontrabile: da molti anni ormai si è
annullato un qualsiasi significativo “scarto generazionale”. In questo nuovo secolo e in questo
nuovo millennio l’arte ha un linguaggio diverso e bisogna che l’artista e il fruitore diventino una
cosa sola, ed essere nel contempo percettori di una lingua nuova, ma antica allo stesso tempo che
deve essere riconoscibile ed autentica.

È la luce la protagonista di questo progetto artistico. Una luce viva, mutevole, cangiante, reale e
fiabesca, ma, al tempo stesso, affabulatrice. Il rapporto intenso e fecondo tra spazio e luce si gioca
sostanzialmente in tutte le opere descritte e narrate da Michela Liberti. In questo percorso lo spazio
della superficie pittorica diviene spazio mentale, luogo arcano, concentrato, sintesi di segni e di
senso, scaturisce dall’immaginario dell’artista nelle sue opere si intravede un “Orizzonte di Attese”.
L’artista lungo il suo percorso si è posto una assioma: «Tutto può accadere». Oppure tutto sta
accadendo, in un tempo sospeso, come un attimo prima dell’uragano. O un attimo dopo. Un istante
che si dilata a dismisura. Prima, fuori, oltre il Tempo. Lo spazio del quadro cattura, condensa,
sospende il Tempo.
E, in una società come la nostra, tutto si fa Mito, gesto. segno, e pensiero, proprio come diceva il
filosofo Bauman che ha focalizzato la sua attenzione sul passaggio dalla modernità alla
postmodernità, e le questioni etiche relative. Ha paragonato il concetto di modernità e
postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società. Mentre nell’età moderna
tutto era dato come una solida costruzione, ai nostri giorni, invece ogni aspetto della vita può venir
rimodellato artificialmente. Dunque nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Ciò
non può che influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie in quanto non ci si vuole sentire
ingabbiati. Bauman sostiene che l’incertezza che attanaglia la società moderna derivi dalla
trasformazione dei suoi protagonisti, da produttori a consumatori. L’esclusione sociale elaborata da
Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale,
ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, in questa
vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma nel contempo si sente frustrato se non
riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in
una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano. Tuttavia è
importante rilevare che Bauman, a differenza di altri autori, rifiuta il termine “postmoderno” a
favore di “modernità liquida”, proprio per indicare la labilità di qualsiasi costruzione in questa
nostra epoca.
Oggi che stiamo venendo fuori da una dura “battaglia”, dopo che tutti hanno provato l’esperienza
della prima linea,, ecco che l’artista Michela Liberti con la sua “arte” vuole raccontare la
“Rinascita”. Le opere di Michela Liberti per la loro attualità trasmettono bellezza e pulizia. Per non
dimenticare inoltre la ricchezza dei particolari e la correttezza cromatica delle opere e la pazienza
nel creare ma anche la poesia nel pensare, ed infine la dolcezza nell’accostare alla stessa opera la
propria tensione interiore. Sì, è vero, sullo sfondo, c’è tutta la modernità dell’oggi tumultuoso e
veloce dove invece noi tutti avremmo tanto bisogno di concrete pause per una seria riflessione
interiore quanto mai personalissima. Ecco, allora che Michela Liberti ce le offre lei stesso, queste
riflessioni, con tutta la sua disarmante poeticità. Ovviamente in silenzio, con grandi pause
meditative quelle che albergano negli animi più nobili e sensibili. Seppur in sordina si avverte la
disperazione della solitudine a cui siamo stati costretti a vivere un tempo sospeso, ma nel contempo
era prepotente in noi il soffuso inno alla vita, al moderno vivere che ci avvolge nel quotidiano.
Musica dunque che non allontana, anzi rapisce e silenziosamente coinvolge. La sua pittura con tutte
le relative varianti è vita, è luce, è il suo modo innovativo di comunicare e interagire, tutto è portato
a nuova vita, che non si dissolve ma che offre spunti per ricordi e interiorizzazioni personali,
sempre cangianti come i tumulti dell’animo e le gioie della speranza di ogni uomo che sia
innamorato e cantore della vita e dei sentimenti che ci vengono quotidianamente offerti.
Nella propria visione della vita il suo spirito pulsante è un’isola che non c’è. La Liberti è capace di
far vivere e rivivere di una luce tutta propria, attraverso i suoi sogni, emozioni, attraverso la pittura

e quella poetica interiore che ognuno vorrebbe riassaporare. Al contempo vorrebbe divenire arbitro
del proprio sentire e della propria cultura. Come dire, il “vuoto” dell’animo è stato di nuovo
riempito dalla luce del sogno, dalla speranza che si nutre di gioie. Osservare le opere di quest’artista
sta a significare capirne l’anima timida ma capace e volenterosa, ma soprattutto la sua vogliosa
brama d’entrare nel dibattito culturale e avere così accesso al variegato mondo dell’arte dove a
ognuno è permesso di proporre il proprio io creatore nella rielaborazione fantastica dell’intimo
soggettivo sentire. Michela Liberti vuol far parlare di sé, vuole incontrare in un cenacolo di voci e
pensieri anche gli altri, poeti e artisti come lei.
Abbiamo tanto bisogno di sognatori, di gente capace di offrirci, in grazioso dono, il loro percorso di
vita e di speranza, con ottimismo, dove ognuno però, è solo con se stesso. Scrigno che potrebbe
vestirsi da ricchezza di tutti, mai come in questo periodo storico. Possiamo dire che quest’artista sa
creare un lirismo che, seppur partito da lontano è struggente e avvolge un presente che è subito e già
passato prossimo, in una veloce corsa contro il tempo che ci rapisce e diventa sogno a occhi aperti.
La luce e in particolar modo i colori cadono sulla tela come novella neve, l’artista fa cadere sulle
opere, adagiandola nel suo prato culturale, ci insegna, con forza e decoro, quasi urlandolo, della
caducità di noi tutti, delle nostre aspettative, di voler ottenere sempre tutto e subito. E la Liberti a
ribadirlo con determinazione, nel suo fare arte, ci mette amore, poesia e musica il tutto diviene una
dimensione senza tempo e senza spazio.
Michela Liberti, figlia di una terra che ha avuto tantissime dominazioni e nata all’ombra del
Vesuvio, inizia a frequentare l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, che in quegli annovera maestri
del calibro di Augusto Perez, Armando De Stefano, Carmine Di Ruggiero, Mimmo Jodice e tanti
altri che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea. Michela Liberti si è laureata in Scenografia
ma ha seguito i anche i corsi di Mimmo Jodice e di Augusto Perez, che insieme a Renato Barisani,
rappresentano le figure più emblematiche dell’arte del secolo scorso. Appena si presenta
l’occasione ella visita mostre e viaggia, in un tour compiuto in Francia, l’artista viene folgorata dai
colori e dalla natura dei borghi francesi che le rimangono impressi. Al suo ritorno inizia a dipingere,
nasce in lei il bisogno di raccontare questo viaggio, per due anni la Liberti porta avanti questo
progetto dove ha immortalato con la sua pittura tutte le sensazioni e le emozioni di quei giorni.
Tutto nasce anche dall’impulso all’innovazione, laddove per novità si intende lo scavare più a fondo
nell’animo. Il convergere tra creatività e rigore le permette di fondere due correnti artistiche che per
l’artista risultano fondamentali, ovvero l’unione tra informale e astratto, ecco che allora la Liberti
palesa il suo bisogno di conoscere e di saperne di più, di andare al cuore delle cose.
La Michela Liberti in questi anni matura uno stile ben temperato, che ogni tanto sfocia in altri gesti
pittorici, in altre stesure generose, nella varietà dei materiali, e nella vivezza dei colori, nel
distendersi del rosso e del nero, nell’intersecarsi dei grigi-bianchi, nelle volute di viola e blu, nei
trattenuti squarci di luce dei gialli, nella luce che rimbalza e viene rilanciata dal nero nelle
stratificazioni cromatiche, nelle stesure monocrome, nell’indagine sulla tessitura del colore. Quadri
come tappe sperimentali, anche se riesce a unire tradizione e innovazione sempre con grande
curiosità. Nell’artista c’è una voglia di sfida utilizzando il pennello come una sorta di tampone
imbevuto, o magari con sventagliate di colore, preferibilmente giallo e rosso. Il colore permette a
Michela Liberti di esprimere delle evocazioni e delle emozioni attraverso luoghi fantastici che ci
permettono però di entrare nella sua favola ma sono luoghi già vissuti dall’artista che attraverso la
sua pittura vuole far rivivere. Le sue opere sono arte in movimento, sperimentazione, tensione,
emozione, sono una ridda ubriacante di ossimori, di coerenti contraddizioni e immobili tempeste,
sono lampi di tenebra fatti di materia spirituale, sono funambolici giochi da tavolo tra equilibrio e

precarietà, divengono criptiche rivelazioni di un caos ordinato, arcaiche narrazioni contemporanee e
apollinee composizioni dionisiache, ricche, colte e preziose opere di semplice e disarmante povertà.
La forza primigenia e raffinata che promana da questi dipinti vien fuori proprio dall’innata capacità
della giovane artista napoletana di conciliare gli opposti per dar vita a opere d’arte di sostanziale e
corposa coerenza artistica. Non è poi casuale se le opere di Michela Liberti siano state ispirate a
immagini fantastiche oppure favolistiche. Attraverso il colore tutto si mostra evidente, ogni
qualvolta un quadro viene pensato sull’inquieto equilibrio tra Forma e Materia, ebbene in questo
caso non è possibile non pensare a risvolti di tipo cosmogonico. Anche quando il titolo dei quadri
parrebbe suggerirci altri orizzonti interpretativi.
Anche se non tutti i quadri della Michela Liberti non presentano espliciti riferimenti, quasi sempre
dinnanzi a uno di questi ci viene da pensare a quei momenti cruciali della vita dell’Uomo. Michela
Liberti allora tenta di interpretare sotto una diversa luce il difficile, il complesso e conflittuale
rapporto tra la Materia e lo Spazio. Nello scontro ineluttabile tra la Forma e l’Informe, spesso i
confini tra aggressore e aggredito si confondono, i ruoli si rovesciano a ripetizione, così
rapidamente che talvolta capita di smarrirsi e di non distinguere più l’una cosa dall’altra. I quadri
della Michela Liberti raccontano anche questo labile confine che separa il Soggetto dall’Oggetto,
l’Uomo dal Mondo che lo circonda, oltre a quanto difficile, e doloroso, e per nulla certo, sia il
processo di auto-definizione. I quadri di Michela Liberti non ci mostrano l’esito di questo titanico
scontro, quanto piuttosto una fase, nel vivo del combattimento. Così colori e materiali che
scompongono e ricompongono il piano narrativo appaiono come una vera e propria raffigurazione
delle linee di forza e dei campi di energia che si sprigionano nel corso di questi eventi di autenticità
dell’Io. Che rappresentano il primo e vero contenuto di queste opere. Quello a cui assistiamo,
dunque, per quanto violento, brutale, o anche solo essenziale, possa sembrarci, è, in definitiva, un
lieto evento, nel senso comune della parola, vale a dire una nascita, quella di un Soggetto sia esso
un pensiero oppure un individuo, che fa parte della psiche dell’artista. In altre parole, si potrebbe
descrivere tale processo creativo come un conflitto tra la Coscienza e l’Inconscio, ovvero il
tentativo da parte dell’Io di rendere conto delle sue parti più oscure e irriducibili. Ecco, proprio in
questo è il valore, l’apporto di conoscenza, la scoperta della Liberti dell’irriducibilità dell’Informe,
dell’impossibilità di piegare completamente l’Irrazionale alle ragioni della Ragione. E viceversa.
Perché se è vero che «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (Blaise Pascal) è
altrettanto vero che spesso (quasi sempre) «c’è del metodo nella nostra follia» (William
Shakespeare).

Giovanni Cardone

 

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Le sensibilità astratto informali e criptonucleari 

della ricerca pittorica di Michela Liberti

L’osservazione della produzione creativa di Michela Liberti ci convince di trovarci di fronte ad una declinazione assolutamente convincente di quella pratica creativa che abbiamo inteso raccogliere, in punto storiografico e critico, sotto l’appellativo di ‘astratto-informale’.

 

Di fatto, tale pratica creativa, in punto storico, àncora i propri primi suggerimenti di proposta nella stagione degli anni Trenta, quando un piccolo manipolo di pittori francesi decide di avviarsi lungo un cammino di sperimentazione che non fosse né quello della visione onirica di marca surrealista, né quello analitico, di ispirazione astrattista, né quello scompositivo di elaborazione cubista.

Scelgono, piuttosto, questi artisti, che, poco più tardi, nel 1941, avrebbero deciso di farsi conoscere come ‘Jeunes Peintres de la traditionfrançaise’, di perseguire un progetto creativo capace di andare ad esplorare l’universo del tutto inedito delle opportunità materiche, non abbandonando ancora, però, il proprio ‘gesto’ creativo aldéroulement eslege d’uno sfarinamento inconsulto e cercando, invece, di fornire ad esso una sorta di opportunità normativa che si espone come dichiarato abbrivio di disciplina geometrica.

 

Da queste premesse avrebbe preso le mosse tutta la stagione che abbiamo inteso definire ‘astratto-informale’, felicemente in svolgimento dal secondo dopoguerra fino ad oggi, con una produzione di grandissimo interesse che ha visto proporsi sulla scena dell’offerta creativa alcuni dei più bei nomi della ricerca contemporanea.

 

E, tra questi, va iscritta la personalità di Michela Liberti, che suggerisce un approccio creativo di straordinario interesse, giacché la sua opera non si limita ad essere derivativamente una sorta di ‘variazione sul tema’, essendo, piuttosto, essa capace di proporre una valida alternativa di stampo convincentemente ‘nucleare’ alle dinamiche propriamente ‘informali’.

 

Si potrebbe dover dire della sua pittura una predicazione piuttosto ‘astratto-nucleare’ che non ‘astratto-informale’, se non riuscisse, tutto sommato, più conveniente – sul piano della narrazione storiografica – l’uso di questa seconda specifica locuzione, entro la quale abbiamo già cercato di perimetrare qualche altra esperienza creativa collocabile entro la stessa lunghezza d’onda della nostra protagonista.

Se potessimo essere ancor più puntuali e precisi, dovremmo suggerire che si tratterà, nel caso della Liberti, di invocare l’osservazione di una pratica piuttosto ‘criptonucleare’ che non decisamente e pienamente ‘nucleare’, per la semplice ragione che l’esondazione scioglievole del pigmento cui ella lascia libertà di spargimento non va mai a superare in scavalcamento d’onda le condizioni di contenimento che la artista sa diligentemente prevedere e disporre.

 

Ciò che si rivela particolarmente convincente nella ricerca di Michela Liberti è, insomma, la possibilità di osservare non solo come convergano nella sua opera le istanze di una determinazione di controllo molto attento e ponderato delle cose – quale può essere quello dettato da una disposizione di telaio compositivo e dalla articolazione delle campiture che ne scandiscono la misura – ma anche come concorrano al compimento dell’esplicitazione piena del suo deliberato propositivo le esternazioni di un sentire interiore che prende a fluire con libertà espansiva lungo un flusso materico che sembra disporsi sul supporto, spinto da una carica esondante, apparentemente affatto indisponibile a trovare una irreggimentazione predittiva, eppure sapientemente governato da una consapevole maestria di regia.

 

Con tali caratteristiche, evidentemente, le dinamiche geometriche degli assetti compositivi latamente astrattivi si complicano di notevoli suggerimenti materici vissuti secondo una logica di libertà straripante della materia, di cui quasi si percepiscono gli spargimenti inconsulti che si raccolgono a fatica entro una perimetrazione che appare più il suggerimento d’un limite che non la disposizione di un ordito distributivo.

 

L’uso particolare del pigmento giova, così, non soltanto a favorire questa particolare condizione di ‘spargimento’ che assume il ductus pittorico, ma giova anche a suggerire una consistenza organica di ordine controllatamente tonale che responsabilizza e rattiene entro i limiti di un vigile controllo di equilibrio l’assetto stesso del telaio compositivo, sicché l’insieme che ne deriva si riesce a proporre come una vivacissima ed intensa sintesi non contraddittoria di libertà espressiva e di raccoglimento formale.

 

Il risultato non è da poco, dal momento che esso si presenta disposto non secondo la  scansione di uno schema, certamente felice,e, però, oggettivamente ripetitivo, ma secondo una profusione di variazioni – che non sono ‘variazioni sul tema’ – ma spostamenti, piuttosto, spostamenti che giovano a creare una moltiplicazione di suggerimenti e di proposte necessariamente caratterizzate, operaper opera, da ciò che non dovrebbe sembrare eccessivo definire come crisma dell’originalità.

 

Detto questo, appare evidente che l’attività creativa di Michela Liberti va giudicata come il prodotto maturo di una ricerca caratterizzata, in questa prospettiva specifica che occupa la nostra modesta valutazione, di straordinaria coerenza: una coerenza interna, che allude ad una pienezza contenutistica, ed una coerenza esterna che propone l’immagine di un equilibrio tutt’altro che predittivamente orchestrato, e che si presenta frutto, invece, di un controllo interiore che, anche preterintenzionalmente – come è nelle migliori tradizioni di fondo ‘nucleare’ – sa fare apprezzare le sue migliori ‘ragioni’.

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Rosario Pinto

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